Ritorno.

Berlino, Marzo 1989

mattina

Niente scatola
. Cielo e cirri a vista, stavolta nitidi; di nuovo in strada. La mano affonda in una barba incolta, incrostata di pietrisco umido. Significa un paio di giorni dall'incontro con lo stivale. Ricordo sfocato del viso, dubbi sull'interesse per il frammento di ricordi che, per brutale necessità, devo recuperare. No. Esigo trovarmelo innanzi. Lo voglio a pezzi dentro il mio congelatore.
Male – quasi - ovunque. Il colletto della camicia è madido di sangue rappreso, suppongo sia mio. Alcuni tagli sulle braccia non sono ancora rimarginati totalmente; il cervello fluisce in piccoli pezzi da orecchie e palato, la sensazione è quella di ruminare gangli alla ricerca di una fibra nascosta in fasci neuronali caotici, per eviscerare un ricordo che fatico a tratteggiare con contorni certi.
Scatolette color noia, trabi senza alternativa si parano innanzi a me ripetitive, ossessionanti. Marciapiedi lerci, lenzuola grigie sui fili un tempo tesi. Rari visi tristi rivolti verso il pavimento, sospettosi; si respira la brezneviana aria moscovita, che nella fredda capitale, in tempi decrepiti, aleggia come un fantasma. Sono a casa. Non mi rende felice. Per nulla. Uscendo dal vicolo, incedo con passo incerto. Vago senza scarpe, la marmaglia rada della mezza città senza banane mi evita. Io non esisto; come sempre. Riconosco lentamente il profilo del quartierino dove portavo le mie ragazze, quel gioiello verde incastonato fra i blocchi di cemento color realismo socialista. Con il cervello schiacciato contro le tempie percorro Luisenstraße, scivolo a destra in Karlstraße costeggiando un palazzo bianco fino a sbucare in Müggelheimer. È probabile che mi controllino; anzi sicuramente. Non so di chi fidarmi, da una parte o dall'altra nemici e salvagenti corrono sulla filigrana del marco o della minaccia; nell'altra metà non ungo da tre settimane almeno. Troppe. In corrispondenza del castello di Köpenick, dove Müggelheimer diventa Oberspreer, ho la sensazione bruciante di avere qualcuno appeso al bavero del cappotto, anche se tutto quel che ho addosso è un paio di luridi maglioni verde scuro, maleodoranti e ancora umidi di piscio. Pensa di più, qualcuno può aver venduto. Mi infilo, con uno scatto nella prima via laterale, deciso a capire se il mio sentore ha odor di vero. Comincio ad allungare in modo indefinito il mio percorso, mi perdo in vicoli che mi riportano a un agro berlinese simile a una natura morta - hitleriana. Perché vendere solo un pezzo della storia? Potrebbe essere stato estorto con gli stessi metodi. Devo ritornare in Lennè. Devo aspettare i ragazzini del muro, mischiarmi. Tornare dentro al rosso. Decido di percorrere Schnellerstraße, sono sbigottito dal deserto umano di questa parte della mezza città di merda che non volevo ricordare. Devo raggiungere Wohlgemuthstraße, e manca poco a Baumschulen. Tornare con un'ondata da Lennè potrebbe richiedere settimane; io non ho un solo istante che possa andare sprecato. Devo trovare la scatola. La scatola.
Non ho mai accennato delle mie cassette di sicurezza a nessuno. È giunto – forse - il tempo di usarne il contenuto. Mi devo assolutamente riposare, e decido di farlo accasciato sotto un albero. Immagini di mia madre e mio padre seduti su un prato, i loro occhi puntati su di me. Penso al povero padre e alla sua indubbia speranza nel socialismo scientifico e reale, nei tempi migliori. Non avrei il coraggio di raccontare del dedalo di spie, intrighi e carte degne del peggior medioevo cistercense. Dietro a una serie di caseggiati, tento di ricordare il posto preciso in cui ho approntato una dogana volante. Una decina di anni fa avevo posizionato, nottetempo, al posto dei mattoni in una riparazione, due assi di legno davanti un piccolo bauletto di metallo verde, chiuso ermeticamente, incastrato nel muro esterno. Documenti occidentali - inglesi - privi di data, un cambio pulito, una scatola di trucchi e una macchina fotografica Nikon. Perfetto turista occidentale. Anche se la macchina è ormai vetusta, servirà allo scopo. L'unico lato positivo di questi palazzi è il non averne troppi – lati. Con pazienza, mi siedo e tento di grattare via l'intonaco, la cui consistenza è quasi inesistente. Tento di trovare un luogo appartato dove potermi pulire dal sangue raffermo, sperando di non avere lividi visibili in viso. In dieci minuti, sono pronto a divenire un cittadino inglese, con accento distintamente scozzese.
Il passaggio. Sfodero un inglese senza sbavature, mi indigno per i ritardi nel controllo documenti. Passo; performo. Sono a ovest. Agguantata una S-Bahn direzione centro. Ma Berlino non ha centri, solo buchi neri divisi da un muro. A passi veloci mi dirigo in Kreuzberg, devo cercare lo scarafaggio che mi ha tradito; lo voglio fare a pezzi; ma prima.
Mi si appannano gli occhi. Il mio viso quasi non mi cela, io sono di est. Il rifiuto.
Suono al campanello scalcinato, salgo rapido le scale a pozzo, aiutandomi con il braccio sinistro appoggiato al corrimano. Apro la porta socchiusa, da cui traspare una luce colpevole. Una nuvola bionda, vaporosa, liscia e ordinata mi accoglie.
Non so dov'è la scatola.
“Vai a lavarti. Puzzi.”

Risveglio.

Berlino, 14 marzo 1989

h 22.15

Buio. Occhi a frammenti. Avanzi di saliva arida sulle labbra. Salmastro frammisto ad acido gastrico appiccicato alla lingua. La testa riversa nel piscio, ci sono sdraiato di pancia. Capelli incollati agli zigomi.
«Svegliati.»
Non è un urlo, è una voce calma, atona, senza accenti particolari. Quasi un sibilo. Parla tedesco. Ripete. Sembra straniero. Est.
«Me lo dici o no?»
Colpo secco. Un tonfo senza un'eco udibile, la mia cassa toracica ha assorbito l'urto. Le costole tremano. Pare abbiano preso a calci il bidone a fianco a me. Non sento niente.
Un altro urto violento, continuo a non sentire male. Il contatto del marciapiede, avverto sul mio viso la colata giallo livida dell'urina. Mi aggredisce le labbra. Vedo una riga nera, una superficie grigia umida e regolare. Una luce frenata da una nebbia collosa. Mi si appiccica tutto addosso. Ho le braccia che formicolano. Dov'è?
«Questo non sa nulla. Anche lo sapesse gliene abbiamo data troppa. Muoviti.»
«Mi devo togliere il dubbio... Se sa dov'è me lo deve dire.»
«Non sa neanche come si chiama. Sei un coglione. Così è inutile.»
Un'altra voce. Non so neanche se ho capito davvero. Sembra parlare con la bocca traboccante di cibo. Vedo la punta di uno stivale nero. La suola è consunta. La punta sverniciata e ammaccata. Le pieghe dell'uso logore e le cuciture gialle slabrate. Dietro intravedo un muro giallo scrostato, con un alone verde. Non vedo altro. Non so a quale delle due voci si riferisca. Potrebbe parlare con un malleolo e gesticolare con le stringhe. Non lo vedo più.
Ancora una botta. Gemo, incontrollato. Mi farà male, prima o poi. Ora, non sento niente. Rotolo, cerco di girarmi, per vedere il prolungamento dello stivale. Dov'è?
«Nessuno ti ha detto che puoi guardarmi in faccia.»
«Ma che..?»
Colpi ripetuti, inferti senza cattiveria. Io sono zitto. Non avverto nulla. Tento di alzarmi senza forze e ricado quasi subito a terra. Ho le mani piene di sangue e lordura. Non so se è mio. La pauta e il piscio, una contrazione. Muovo di scatto la testa. Un getto di vomito batte a terra e mi rimbalza sul naso.
Mi balena in mente il sorriso di mio padre giovane mentre corro impacciato, con una tuta turchese in un prato verde brillante. Dov'è?
«Ti ripeto la domanda: sai chi è Catcher? dov'è Catcher?»
Bene. La copertura non è saltata. A quest'ora sarei dentro a un pilastro di cemento se sapessi che Catcher sono io. Ma tu sei un coglione.
Devo tirare fuori la voce da tossico in secca che ho imparato a imitare in anni di sdoppiamento della personalità.
«Che cazzo vuoi? Sei uno sbirro?»
Calcio alla bocca dello stomaco. Rantolo. Sembra una risposta aperta e sufficiente.
«Fanculo. Che cazzo ne so. Tre giorni fa in Postdamer mi ha dato tutto. Poi è sparito. Ho venduto tutto. Fanculo.»
«Non mi interessa quello che ti ha dato. Tientelo. Scioppatelo in vena e crepaci. Venditelo. Io voglio Catcher.»
«Non è mia madre. Cazzo ne so io.»
Gli scarponi neri escono di nuovo dal campo visivo. Trattengo il fiato. Aspetto il calcio di punta. Mi arriva della saliva in faccia. Sento dei passi la cui intensità sonora scende pian piano. Sono vivo. Dov'è?
La scatola rossa. Cazzo la scatola rossa. Le mie mani schizzano in tasca, battono il petto. Sono senza giacca. La scatola rossa. Non è addosso a me. Merda. Lo sguardo si allinea. Gli occhi mi si spalancano. Sono la testa mozzata di un cavallo che morde la mano del suo boia. L'adrenalina allaga le vene. Sputo vomito a pezzi. Gli occhi ruotano assieme al collo. La scatola rossa. La scatola rossa.
La mia giacca è appoggiata a un sacco grigio pieno di ogni sozzura possibile. Magari è lì dentro. Tento di correre via. Mi alzo, allungo il primo piede e sento il secondo avanzare, frapporsi all'altro. Cado violentemente. Lo sguardo cala sulle mie scarpe: ho i lacci della sinistra e della destra legati assieme. La scatola. Passi di corsa. Dov'è?
«Pensavi di andar via così facilmente? Vuoi che ti paghi anche il biglietto della U-Bahn?»
Niente scarica. Ancora.
«Come lo incontri Catcher? Quando lo incontri la prossima volta?»
Parla di me in terza persona. Gli servo.
«Si fa sentire lui. Mi lascia detto dove e quando e io vado puntuale.»
«Dove ti lascia detto? Quando lo vedi?»
«T'ho detto che si fa sentire lui.»
Sento la mascella scomporsi. Chiudo gli occhi. Non so dov'è.