Risveglio.

Berlino, 14 marzo 1989

h 22.15

Buio. Occhi a frammenti. Avanzi di saliva arida sulle labbra. Salmastro frammisto ad acido gastrico appiccicato alla lingua. La testa riversa nel piscio, ci sono sdraiato di pancia. Capelli incollati agli zigomi.
«Svegliati.»
Non è un urlo, è una voce calma, atona, senza accenti particolari. Quasi un sibilo. Parla tedesco. Ripete. Sembra straniero. Est.
«Me lo dici o no?»
Colpo secco. Un tonfo senza un'eco udibile, la mia cassa toracica ha assorbito l'urto. Le costole tremano. Pare abbiano preso a calci il bidone a fianco a me. Non sento niente.
Un altro urto violento, continuo a non sentire male. Il contatto del marciapiede, avverto sul mio viso la colata giallo livida dell'urina. Mi aggredisce le labbra. Vedo una riga nera, una superficie grigia umida e regolare. Una luce frenata da una nebbia collosa. Mi si appiccica tutto addosso. Ho le braccia che formicolano. Dov'è?
«Questo non sa nulla. Anche lo sapesse gliene abbiamo data troppa. Muoviti.»
«Mi devo togliere il dubbio... Se sa dov'è me lo deve dire.»
«Non sa neanche come si chiama. Sei un coglione. Così è inutile.»
Un'altra voce. Non so neanche se ho capito davvero. Sembra parlare con la bocca traboccante di cibo. Vedo la punta di uno stivale nero. La suola è consunta. La punta sverniciata e ammaccata. Le pieghe dell'uso logore e le cuciture gialle slabrate. Dietro intravedo un muro giallo scrostato, con un alone verde. Non vedo altro. Non so a quale delle due voci si riferisca. Potrebbe parlare con un malleolo e gesticolare con le stringhe. Non lo vedo più.
Ancora una botta. Gemo, incontrollato. Mi farà male, prima o poi. Ora, non sento niente. Rotolo, cerco di girarmi, per vedere il prolungamento dello stivale. Dov'è?
«Nessuno ti ha detto che puoi guardarmi in faccia.»
«Ma che..?»
Colpi ripetuti, inferti senza cattiveria. Io sono zitto. Non avverto nulla. Tento di alzarmi senza forze e ricado quasi subito a terra. Ho le mani piene di sangue e lordura. Non so se è mio. La pauta e il piscio, una contrazione. Muovo di scatto la testa. Un getto di vomito batte a terra e mi rimbalza sul naso.
Mi balena in mente il sorriso di mio padre giovane mentre corro impacciato, con una tuta turchese in un prato verde brillante. Dov'è?
«Ti ripeto la domanda: sai chi è Catcher? dov'è Catcher?»
Bene. La copertura non è saltata. A quest'ora sarei dentro a un pilastro di cemento se sapessi che Catcher sono io. Ma tu sei un coglione.
Devo tirare fuori la voce da tossico in secca che ho imparato a imitare in anni di sdoppiamento della personalità.
«Che cazzo vuoi? Sei uno sbirro?»
Calcio alla bocca dello stomaco. Rantolo. Sembra una risposta aperta e sufficiente.
«Fanculo. Che cazzo ne so. Tre giorni fa in Postdamer mi ha dato tutto. Poi è sparito. Ho venduto tutto. Fanculo.»
«Non mi interessa quello che ti ha dato. Tientelo. Scioppatelo in vena e crepaci. Venditelo. Io voglio Catcher.»
«Non è mia madre. Cazzo ne so io.»
Gli scarponi neri escono di nuovo dal campo visivo. Trattengo il fiato. Aspetto il calcio di punta. Mi arriva della saliva in faccia. Sento dei passi la cui intensità sonora scende pian piano. Sono vivo. Dov'è?
La scatola rossa. Cazzo la scatola rossa. Le mie mani schizzano in tasca, battono il petto. Sono senza giacca. La scatola rossa. Non è addosso a me. Merda. Lo sguardo si allinea. Gli occhi mi si spalancano. Sono la testa mozzata di un cavallo che morde la mano del suo boia. L'adrenalina allaga le vene. Sputo vomito a pezzi. Gli occhi ruotano assieme al collo. La scatola rossa. La scatola rossa.
La mia giacca è appoggiata a un sacco grigio pieno di ogni sozzura possibile. Magari è lì dentro. Tento di correre via. Mi alzo, allungo il primo piede e sento il secondo avanzare, frapporsi all'altro. Cado violentemente. Lo sguardo cala sulle mie scarpe: ho i lacci della sinistra e della destra legati assieme. La scatola. Passi di corsa. Dov'è?
«Pensavi di andar via così facilmente? Vuoi che ti paghi anche il biglietto della U-Bahn?»
Niente scarica. Ancora.
«Come lo incontri Catcher? Quando lo incontri la prossima volta?»
Parla di me in terza persona. Gli servo.
«Si fa sentire lui. Mi lascia detto dove e quando e io vado puntuale.»
«Dove ti lascia detto? Quando lo vedi?»
«T'ho detto che si fa sentire lui.»
Sento la mascella scomporsi. Chiudo gli occhi. Non so dov'è.